Un velo mite si cela nella scorza del tempo. Tacito dissipa inviti profumati da sospiri e voglie. Prati esaltanti, gracidano, quella luce per sorseggiare i colori scroscianti. Meticolose scadenze accorrono a servire le delizie appena spente dalla sera nell’oblio. S’ode un silenzio sibillino assaggiato dall’amaro gusto delle lacrime. Mentre occhi spiano, l’accecato ignoto, vesto la nudità dei sogni attraverso schegge ultimo grido su leggiadre farfalle. Sfuggevoli ed infiniti i passi giungono al dolce frutto a cui le mani non giungono. L’arida rugiada chiude cancelli anelando verità fermentata da tremule ed impresse parole che vagano ancora nel ritroso calore dell’animo ingravidato di ardimento e commozione. Scalza, calpesto un campo, le sue spighe eleganti raffinate m’invogliano ad ascoltare freschi pensieri camminate da coccinelle sul filo d’erba, del nero presente. Da fanciulla già donna matura lascio i sogni e le fantasie ad infrangersi nella ragione, respirando reale un risveglio insolente coperto da un velo infausto, contando i giorni dell’insidia. Ci conoscemmo a memoria, come una poesia recitata, ombre lunghe di lanterna che rubano luce alla gioia. Le sigarette, le lenzuola, le fotografie, il rum, un volo, le valigie, panni stesi, vite invecchiate da chi ti siede accanto. Fu solo l’inizio di una pagina ingiallita, di gravosi ostacoli, armoniosi contrasti, delusioni dopo accorate speranze. Intanto pioveva acque d’ebano sui miei passi presenti lasciando spazi di pensieri, sillabe stridenti radici nascoste, le colombe dorate si erano estinte.
Non parlavi, ti leggevo dentro, innaffiando l’apatia coricata sul letto della tua infedeltà. Ricordi e ancora ricordi lamentati…. Tra i corridori di un caldo sabato m’aggiravo spensierata intrattenendo il gelo tra le acerbe gambe sudate. Un ricamo d’uggia si ampliava nelle mani scarne protese a fuggevoli emozioni. L’insonnia di notti ambigue assetavano i miei occhi ossuti certezze e poi quel pensiero fisso, crocefisso, spalancato nei solchi del tempo…… nuda la mia carne scivolata dalla tua mano, sgravavi baci al mio seno inizio del tuo, mio viaggio, in quelle lenzuola senza noia. Perdevo la voce su quei germogli bianchi di fragole galoppando lesto verso quell’orizzonte ambrato dai flutti. Quanto è amaro questo sogno ti passa accanto ne percepisce il calore mentre un brivido maliziosamente ti sussurra il risveglio. Ora siedo qui spezzando gli argini della mia incontenibile rabbia pronta a divorare questo rigoglioso giorno. Risuona un cinguettio, lo odo ferito che lambisce solitudine: strade vuote rimproveri insolenti e nudi messi nel turgore delle lacrime. Che cos’è la vita senza di te, difficile da capire. Mi guardo dentro per camminare oltre, per non ferirmi, per non perdermi, ma questo presente è un frastuono di emozioni che vivo rovesciando addosso pesanti distanze. Camaleontiche sono le partenze d’oggi e il domani? Le certezze frugano un presente sbalestrato. Guardo nuovi approdi cercando di rimuovere il tormento del devastante odio, tarlo della gelosia che si scaglia come pietre, urlo affogato della nomade paura. Senza più identità, oltre la noia e i desideri stanchi inseguo l’ansia dischiusa in corolle colorate cercando di spezzare quei lacci che ancora legano le mie scarpe. Oltre alla siepe fuggo dall’urlo di questa violenza per nascondermi in un giorno senza limiti né orizzonti. In questa terra ripa erbosa scavo prove del mio cambiamento intanto le bacche risuonano, brulicano le api profumate di rose, il vento raccoglie una voce di flauto, ortiche di nuvole dissipano perdoni, il giubileo delle allodole s’inonda di appesi desideri. Il mio corpo flesso come una canna al vento ritrova sapori.
Lei è bella, avvolta da sfuggente erotismo che tenta celare ma che mi fascia ogni qualvolta che la vedo camminare ignara nel deserto del suo pensiero; quella sera di ottobre un malcontento cielo gonfiava le gote di giovani nuvole assonnate dalla noia, ridendo smorzava gli occhi al sole inseguendolo con una lunga pazza corsa. Lui, per sottrarsi a quella ripicca scese e poi risalì scocciato. In quell’allietare, la mia nostalgia trionfò pietosamente in sguardi ed in parole raddolcendo l’ansia. L’attendevo, freddo muto come un geco, celandomi tra le ombre di un vicolo denigrato aspettando cosa prometteva l’ultima luce, che cosa aveva in serbo. La conoscenza dell’agonia era una droga che cedeva a un senso di colpa avvizzito nella pelle lasciando un piacere orrido nelle mani impazienti a difendere il tempo tenuto. Infine la vidi, giovanile, luminosa, in quel viale ombreggiato con la sua striscia di verde dove i ciliegi stregati si spogliavano del loro vestire accanto ad un pergolato di buganvillea abbandonato a se stesso. Attendeva, cosa mi domandavo concitatamente. La sera era quasi trasparente. Il mio cuore batteva lugubri rintocchi. Il vento aumentò e con lui l’odore di quei fiori e della polvere che saliva a mulinelli e mi soffocava o era altro che non volevo riconoscere. Senza quasi volerlo fui in quel luogo, dove i miei lenti passi, m’avevano portato. Suonavano intanto diverse campane, una aveva la voce roca e ottusa del peccato. Il paesaggio si frastagliava intorno alla sua linfa ed io non fui da meno. Una luce argentea, sottile fredda logorava un desiderio aguzzino che mi lacerava la carne a poco a poco, cintando la mia lingua di filo spinato, denudandomi, inchiodandomi alle pietre, aria ogni cosa. Percepivo formicolanti fantasmi giacenti ancora nel mio letto annuire senza bocca, senza occhi, lasciavano oracoli da decrittare nella reminiscenza. Oh!… Se potessi, solo una volta, toccarla, cucire il suo odore sulle labbra, senza pianti né addii. Modellare la sua effige con la lingua arrivare fino all’antico gioiello scaglia del suo ventre. Io e lei amanti in lieta ebbrezza di cui l’un nell’altro muore. La vagheggiata e accesa sera mutava le sue forme in quel fuoco che mi attanaglia il ventre ammutolendomi. Volevo ad ogni costo assaporare quella pelle lattea che avvolge il pudore nei suoi veli. Oh! .. quanti momenti le ho dedicato, se lei sapesse, ma lei non sa…forse immagina…forse ha capito. Ed io attendo.
Mi fermai qui. Illusa di mirare ciò che vidi davvero l’attimo che ristetti, non fantasie, anche qui le memorie, le forme del piacere dove di sé si faceva maggiore la prova dell’amore. Vidi con te, scolpita, la persona, con emozione ne plasmai il viso lasciando un arcano senso sulla fronte, sugli occhi, sulla bocca. Era volgare e squallida la scena, nascosta dove sorgeva il vicolo angusto e lercio. Di là saliva una voce conosciuta. E là, sul vile, miserabile inganno, cingesti un corpo, non mio. Avesti quella bocca voluttuosa, rosata d’ebbrezza. Lo sento ancora mentre scrivo, disse, prendimi, antiche brame scorrevano nel sangue. Palpitai e palpito ancora a questo ricordo, non spento, lontano, ai primi anni d’adolescenza. Era d’agosto appena consumato con i suoi compromessi e le lusinghe. Fuggii turbinante nell’anima, andai allo sbaraglio bevendo quei veleni. Mi rinchiusi fra quattro muri nudi, mentre il dolore muto, impazzi, ingiuriò e maledisse. Trascorsi il tempo, volli capire. Si presentò e fui costretta a credere alla menzogna. Allungò le mani per abbracciarmi ebbi paura, ribrezzo. Angosciata gridai il mio disprezzo, non ebbi pietà. Lui pallido denudato nella carne, farfugliava retorica e arringhe. Fredda non colse lacrime, i sogni inumati non trovano poesia.