La sua assenza mi distrugge. M’insegue, come l’eco dei miei passi che rimbalzono sul selciato. Mi spezza le gambe, ammolla il mio cuore.
Come erba tra i muri- mi disse, prendendomi tra le braccia.
-Cresce nelle saltuarietà, ha bisogno di spazio.
A questo gli servivo, ad interrompere le discontinuità. Non credevo che avrei potuto soffrire così, invece la sua assenza mi raggiunge, mi afferra alle spalle, mi avviluppa le gambe e mi fa crollare sconfitta.
L’acqua del mare è limpida, di un azzurro verdastro. Nelle giornate di sole si tramutava in un gioco multicolore di riflessi e palazzi capovolti. Oggi una foschia sottile avvolge come un velo la città, impegnata da quell’odore inconfondibile di salsedine mi attrae e mi ripugna.
Ho cercato spesso di immaginare come doveva essere scivolandomi tutto dentro. Ritornare sui miei passi, raggiungendo itineranti più classici, la quotidianità di un affetto sicuro non mi attirava.
Affittammo una modesta casetta da un contadino. L’abitazione si affacciava sul panorama sotto le antiche rovine di Pentidattilo. Nella casa depositammo un semplice bagaglio, prendemmo un catino d’acqua e ci rinfrescammo. Quando ci alzammo e uscimmo dalla stanza, poiché era una bella giornata di novembre, decidemmo di fare colazione in giardino e poi fare una passeggiata tra i vicoli della città vecchia come due persone qualunque. Arrivati nella piazza principale ci affacciammo al belvedere e guardammo in basso il mare ancora torbido e gonfio per una pioggerellina invadente. Giungemmo prima del tramonto sulla sabbia annusando l’effluvio di salsedine. Lì, così eccitati, ci donammo reciprocamente. Ero convinta di vivere il giorno più bello della mia vita. Tutto avvenne sulla sabbia fredda. Strofinata sulla pelle emanava un odore di menta e di sudore amoroso. Il mio soddisfacimento fu più forte del dolore, lui mi baciava affinchè non uscisse un solo lamento dalla mia bocca. Sentii il seno sotto il suo petto, che si irrigidiva alla sua bramosia, volevo i suoi baci che lui posava dolcemente come se domandasse scusa. Così, beatamente dimenticai tutto, persino di esistere. Tutto fu semplice, frugale e poetico mentre il sole graffiava oltre il tramonto gli ultimi colori del cielo. Dopo la cena, un po’ ebbri a causa del forte vino resinato, soddisfatti dell’ottimo formaggio accompagnato da olive nere ci coricammo. Fummo padroni di una notte intera. Quasi nudi, l’aria piuttosto fresca accarezzò i nostri corpi molto accaldati, ormai completamenti nudi. Mi eccitai col suo incidere da citaredo, i suoi piccoli glutei, le sue lunghe e magre gambe, il suo ventre piatto e la macchia di peli scuri che saliva al petto a formare il segno di croce. Nudo esibii l’altro sesso compiacendo i miei sensi. La luna si trovava ormai all’altro estremo del cielo, lasciando il posto alle stelle. Il silenzio era tale da permettere di seguire l’abbaiare dei cani in lontananza. Gli stetti accanto, lo sentii respirare tenendo il mio capo appoggiato sul suo petto villoso. Lo accarezzai come un tesoro, sorridevo senza farmi notare. Onirico fu il tempo, costruii un ritaglio nella ruota che girava. Di quanti sogni disponiamo? Guai a chi ci deruba, a chi sottrae un sogno posto lì, solo per noi. Lungo però è il cammino troppo spesso consegue spinosità. Spetterà al destino o alla misericordia, lo scopo di sostituirlo. Mi baciava le nostre bocche aprivano in preghiera. Udii il suono del mezzogiorno delle campane, le cicale erano in concerto e i gabbiani volavano bassi, sguardi indiscreti, esposti al sole fra gli oliveti, fissavano un addio, orgasmo di un’avventura. Lui un bel soldato inglese imboscato in questa terra di zagara, dalla fine della guerra, capelli lunghi neri bagnati dall’umidità e sudore, sparì con lo zaino nel viale di un tramonto per non scorgere più albeggiamenti. Lo guardai, senza fare un passo, né dire una parola, capii che aveva chiuso di scatto la porta di quell’eden che attraversai con passi leggeri senza sapere di essere entrata. Il sole bagnava di luce i miei capelli, il bosco impenetrabile e nero brontolava con mille fruscii mentre i ciclamini cremisi lacrimavano un canto funesto. Mi accucciai nell’oscurità del mio dolore, con gambe raccolte fra le braccia e la schiena esausta appoggiata alla pietra umida. Non volevo essere una donna paesana, vestita in nero, sepolta fra aranceti, a sera recitare un rosario. Tenni gli occhi fissi sul mare e su quella nave che silenziosa e mesta s’allontanava senza lasciare traccia.