•  Non ritrovo i sogni
    che accompagnano le mie notti
     
    E’ spento lo schermo della fantasia
    in un albeggiare stanco
    dell’indifferenza.
     
    In questa insonnia
    priva di respiro, serpeggiano
    pensieri, accarezzandomi
    col loro veleno.
     
    Mi alzo, inciampo, una bottiglia,
    la prendo in mano, tracanno
    il suo interno, lo stomaco
    è trapassato da doglie
    e da poca lucidità.
     
    Opere appese al muro
    evocano afflizione
    nel disordine della ragione.
     
    Sull’inferno della mia esistenza
    stridulo è il pensiero
    di un’altra notte
    senza di te.
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  •  Quando mi trovo prigioniera dei tuoi urli, beffeggiata da talune espressioni, cerco di rifugiarmi nel passato per non vomitare il presente. Come zanzare dal volo incerto i pensieri risuonano nell’orecchio e si accendono come piccole lucciole per pensare a quei giorni lontani.

    E riaffiorano nelle mie ansie i sogni e le verdi primavere dell’infanzia quando con leggeri calzari dipingevo un mondo rosa sulle pareti del cielo e la mia innocenza si adagiava sul respiro della luna. Rivivo quel trascorso negli echi di stanche parole, vibrazioni di un’anima inquieta nella distolta cronologia di una memoria consumata nei rapidi frammenti di offuscate immagini. Sono in un altro corpo e già mi sento bene. Vivo quel silenzio acuto del mattino tipico di ogni alba che si baruffa all’odore del pane appena sfornato. La piccola casa sbadigliava a quei odori, si grattava scricchiolando cicatrice d’un tempo.

     “E’ già ora di alzarsi sbeffeggiava”.

    Sopra affacci scrostati, mattoni anneriti, negli occhi dei vetri stupiti, affannava il suo respiro dicendo:

    “ tempo perché fuggi? In gioventù non mostravi i tuoi limiti, ti muovevi lento, quasi statico, partorivi sogni schiudevi spiragli e illusioni, colmavi il futuro, ora corri, corri sempre più veloce”.

    Il tempo tacito, non le rispondeva, e la sua rabbia si riaccendeva nel disequilibrio della sua paura, non comprendeva che è lei ormai troppo vecchia e non era più capace a stare al suo passo.

    In questo beccarsi, rivedo la mamma che cammina lesta con il suo grembiulino ricamato, uscire dalla stanza per andare nella legnaia a prendere la legna per accendere il fuoco.

    La legnaia non era altro che un incavo fatto sul muro di una parete di roccia, picconata da mio padre, in un giorno d’estate, quando la roccia arida dall’arsura del sole, si sgretolò con fatica, nel suo sudore e in qualche imprecazione.

    La mamma ritornò con il suo carico avvolto nel grembiule depositandolo in un angolo della cucina, se si può chiamare così una striscia di suolo due metri per due metri senza piastrelle, con i muri anneriti, senza pavimento e una piccola finestrella che si affacciava verso la collina.

    Pochi ramoscelli sottili in po’di carta, un fiammifero di legno strofinato s’un sasso, un soffio leggero con la bocca ed ecco l’accendersi d’una fiammella fra qualche lacrima e un colpo di tosse, poi via con il ventaglio fatto di cartone a far vento per attizzare la legna per cucinare. In un pentolino di rame brunito dal fumo, la mamma, faceva bollire il latte appena munto dalla Nerina e dalla Bianchina le mucche della Gina che abitava in un casolare non distante dal nostro.

    Troppo forte la Gina più che donna, un maschiaccio. Indossava sempre pantaloni e camice dai colori sgargianti quando le si domandava:

    “perché indossi questo abbigliamento”

     lei rispondeva:

    “così la persona sanno che sono io e mi lasciano in pace se non vogliono assaporare la mia doppietta”.

    Che allettante quel ricordo della doppietta!

    Si raccontava che il Peppone detto mezza botte per la configurazione del suo corpo tozzo, innamoratosi di lei, una sera andò sotto la sua finestra per cantarle una serenata, alle prime note, la Gina accese la luce spalancò la finestra e si presentò con la doppietta in mano, spaventato il Peppone si mise a correre ma fece pochi passi, si udì uno sparo, poi un urlo acuto lacerò la serata.

    Si era beccato una scarica di pallettoni a salve sulle chiappe.

    “E che chiappe!” 

    Annuiva il dottore Miglio detto sega ossi, quando lo visitò e incominciò a toglierli quei pallettoni uno per uno facendoli titillare nel catino di ferro smaltato avorio. Da quell’episodio nessuno le si avvicinò. A quel tempo mi sono ingenuamente domandata:

    “ma era tanto stonato?”

      L’odore del latte fresco e del pane appena sfornato non saziava la mia pigrizia, amavo stare in letto, tra quelle lenzuola fresche di bucato che accarezzavano il mio viso e il calore di quella piccola camera condivisa con i miei genitori. Assaporavo l’odore della terra negli umili arredi che la componevano, un letto, un armadio, una panca, una sedia di spago, un comodino e un crocifisso sulla parete bianca. Sospirava d’anime pure, specchio raro in una famiglia. Ho annodato quei ricordi nel silenzio del mattino in un segno di croce che mi invita sempre a camminare nelle umane speranze di una nuova vita.  Ricordo la stanchezza di mio padre appesa ad una giacca, la paura sotto scarpe bucate, l’esultanza del suo abbraccio fino a farmi soffocare, l’inquietudine scritta sulle rughe, veglia e mistero del suo viso. Il letto raccontava il suo ronfare stanco fra sorridili della mia spensieratezza, sillabe perdonabili, sussurrate nei colori della notte. Al mattino quando la luce dall’occhio vivo entrava dalle fessure di quella finestrella assopita nel muro, passi leggeri scuotevano il mio corpo, non mi voltavo, nel buio dei miei occhi dicevo:

    “ fammi dormire, voglio dormire, non mi fissare, lasciami stare”.

    Sentivo lo sguardo di mia madre premere forte alle mie spalle,

    “non ti guardo ripetevo, vattene via, vattene via, fammi ancora sognare non depredare i miei sogni, lasciali stare”.

    Lei mi baciava sulla fronte, m’accarezzava amabilmente il viso, era la filastrocca del risveglio che cantava con la voce dell’anima, che ancora oggi mi sembra udire.

    La mente tornata bambina svolazza in una reminescenza appena creata e il tic tac del tempo sogghignando alterna vive sensazioni ormeggiate nella mia gelida solitudine. Cammino scalza, penitente e, quel gelido graffia le mie spalle nude, un lamento disteso nelle braccia vuote, trasudando nostalgia.

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  • C’è una città di cartone
    dietro la vetrina
    griffata
    invisibili sdraiano
    il nulla
    in una fodera di velluto viola
    disgraziati
    nell’inviolata solitudine
    per colui che lo sguardo posa
     
    Molli passi griffati
    sul pavimento  
    non lasciano che odore
    di denari
    nessuna traccia
    di pietà umana
     
    Ohohu..ou trilla
    un campanello:
    – E’ Natale-
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