.Varca la notte indefinita, plasmando acconce membra, abbeverando voluttà, veemenza, riverbero di quella fiamma, pelle gelsomino, lasciva nel tempo senza letta né parlata. Memorie amare in stanze chiuse e profumate d’un remoto piacere che soltanto la notte crapula vive. Ferito, dalla finestra spalancata, schiarito dalla luna il mio corpo veste la lingua del dolore. Un canto, di giovinezza, vagabonda nell’alba, musica, a notte di poesia lontana muore. Mausolei di lacrime chiudono quel gelsomino restando indietro i giorni del passato. Non mi voltai, nella caliginosa riga di spazi brevi. La metamorfosi fra noi si aggirava cercando vedovanza. Il giorno mi insegnò il vero, la sorte declinava. Chiusi la bocca ai suoi denigratori lividi nelle vertigini di una presa. Ahimè soccombé la anima fino alle ossa, sentii l’origine e la fine.
Mi fermai qui. Illusa di mirare ciò che vidi davvero l’attimo che ristetti, non fantasie, anche qui le memorie, le forme del piacere dove di sé si faceva maggiore la prova dell’amore. Vidi con te, scolpita, la persona, con emozione ne plasmai il viso lasciando un arcano senso sulla fronte, sugli occhi, sulla bocca. Era volgare e squallida la scena, nascosta dove sorgeva il vicolo angusto e lercio. Di là saliva una voce conosciuta. E là, sul vile, miserabile inganno, cingesti un corpo, non mio. Avesti quella bocca voluttuosa, rosata d’ebbrezza. Lo sento ancora mentre scrivo, disse, prendimi, antiche brame scorrevano nel sangue. Palpitai e palpito ancora a questo ricordo, non spento, lontano, ai primi anni d’adolescenza. Era d’agosto appena consumato con i suoi compromessi e le lusinghe. Fuggii turbinante nell’anima, andai allo sbaraglio bevendo quei veleni. Mi rinchiusi fra quattro muri nudi, mentre il dolore muto, impazzi, ingiuriò e maledisse. Trascorsi il tempo, volli capire. Si presentò e fui costretta a credere alla menzogna. Allungò le mani per abbracciarmi ebbi paura, ribrezzo. Angosciata gridai il mio disprezzo, non ebbi pietà. Lui pallido denudato nella carne, farfugliava retorica e arringhe. Fredda non colse lacrime, i sogni inumati non trovano poesia.
Ormai le certezze sono vuote
abitano nelle chiese sconsacrate
tra campane senza richiamo
e quadri sbiaditi nel colore
tra banchi senza rosari
e vangeli ingialliti da preghiere.
Li cerchi nei viali del tramonto
dove il sole bacia il suo mare
dove l’onda solletica la rena
dove le albe incominciano a sbocciare
nei miraggi per farci vagheggiare
mentre la notte inizia a cantare
negli affannati prigionieri.