Dalle montagne il torrente conduce al dolce di zenzero, alle noccioline di piccolo formato. Laura la selvaggia, corse giù per il colle, si levò la sua veste scalciando, si stese sull’erba come una venere ubriaca. Davanti ai suoi occhi di strega sopra la bocca d’un cherubino si formarono un corteo di forme e ricordi. Solo i fiori sbocciati con orgoglio sensuale custodivano le sue confidenze.
“Arriva qualcuno! Zitta , zitta piccola zingara”, intimavano i fiori che la cingevano.
Così, polposa e bella lei si placava immobile all’avvicinare del vento che sgualciva nell’istante una margherita per carpire quel segreto.
“Che fai piccola fata agghindata di crema e burro” le disse il vento.
“ Posso assaggiare il tuo bel visino.”
“Amo i prati, i fiori, le colline, le valli i greggi, su non fare la sdegnosa, lasciati accarezzare”.
Laura era tentata voleva rinfrescarsi dall’arsura ma le pecore sul declino del prato incominciarono a belare, la ginestra con i suoi speroni sottili e verdi le impigliarono il vestito, gli argini del torrente incominciarono a brontolare, dal cavo d’un albero dove le vespe si raccoglievano in sciami levò un ronzio assordante, anche un bocciolo verde lungo come una spiga che le stava accanto la tratteneva.
Conoscevano bene il vento nelle sue quattro stagioni. In primavera sensuale e fantasioso, in estate ruminante e pensieroso, in autunno stanco e ozioso nelle nebbie, in inverno assumeva una pallida deformazione. Non era affidabile.
Nessuno di loro voleva perdere quell’abitante dei boschi così allegra e ineludibile alla vita.
Laura spaventata dal quel chiacchiericcio legò il vento nella sua ombra ad una vecchia quercia addormentata. In quell’attimo fuggente le porte si aprirono al sole inebriando poesia e canti nei gemiti del cielo.