Abitavo in un sobborgo, ai piedi d’una collina verdeggiante ove i geroglifici delle foglie impastavano la terra di quello ricopiato crudo d’autunno. La mia casa bianca dalle tegole rosse, s’emergeva nell’erba appena tagliata fra i limoneti, aranceti e nei sentieri conosciuti dal profumo di zagara che ti entra nell’anima in un respiro lasciando riflessi negli occhi la prigione del suo colore. Avevo quindici anni, tante idee, sorrisi spezzati, sogni di vetro, un filo di zucchero riflesso negli occhi scorreva cercando di capire mentre le mani imbrattavano l’impasto di torte di compleanni appena tralasciati, nel gusto di provare lo scoperto di piccoli fervori adolescenziali. La primavera era, per me, vivere la gioia e quando picchiò alla finestra, corsi con le scarpe cotte dal sole, sporche di tempo e di terra a ricordare quei giochi interrotti dalle urla dell’inverno, stringendo quei silenzi troppo a lungo lasciati in un angolo oscuro ad annidare sogni. Indossavo un vestito nivea, cercava un corpo a dispetto del tempo, credevo che vi fosse intorno un alone di magia poiché descriveva nuove movenze da presentare. Mi muovevo pigramente sul sentiero boschivo, tra il silenzio immerso in un formicaio, gli occhi coglievano esuberanti papaveri in movimento, il loro polline raccolto dalla scia bavosa della lumaca s’impigliava fra i rami con suoni modulati nelle metriche dei germogli appena nati. I papaveri respiravano di luce, ammagliata ne colsi più di uno stelo, li portai in una decadente chiesetta nascosta tra i roveti sulle pendici di un colle solitario. In essa non si officiava messa, sull’altare riflesso fiaccamente dal sole, una crosta sbiadita, attendeva un fiore, una preghiera. Muta, genuflessa, sul leggio tarlato dall’età, scavai un credo, rinnovando l’antico vincolo dietro a ogni palpebra calata, a ogni ciglia singhiozzata. Scivolai via, con passi leggeri sull’altalena di un sorriso, specchio di un sempliciotto addio. Il sole si distendeva nel mio camminare, un’ombra seguiva i miei passi senza asserire. Sentivo il tempo scivolare via, dimenava le foglie facendole frusciare in una cantilena. Piano , piano quel sole incominciò a punzecchiarmi come una pioggerellina assidua, bagnava di luce i capelli, nell’istante, l’olezzo del sottobosco sborniava le mie narici nei rievocati sapori d’antico. Mi distesi sull’erba, ero compiaciuta, pisolavo statica nell’aguzzo e furfante silenzio. I ciclamini s’affacciavano in un tappeto rosa e viola e accarezzavano le asperità del bosco facendone un manto. Appoggiai l’orecchio sulla terra, per ascoltare, udii mille fruscii, erano le tanti voci: bruchi che strisciavano, volpi che si acquattavano, coccinelle che si oscillavano sul filo d’erba non ancora falciato. Percepii che qualcosa in me stesse cambiando, non capivo cosa. Rapita da questi pensieri non mi accorsi che il tempo era trascorso speditamente. Mi portò alla realtà l’eco della voce di mia madre che m’invitava a rientrare in casa. Entrai in casa quasi smarrita, il primo istinto fu quello di andare subito in camera da letto. Percepivo sulle schiena, un’ ingombrante mano che mi spingeva verso quella direzione, camminavo come se i passi salterellassero in un gioco di campana, ad ogni resistenza, barcollavo per non cadere in computazione. Lì vi era un vecchi armadio di ciliegio costruito da mastro Ernesto, un falegname della collina degli alberi, un campagnolo amico d’infanzia di mio padre che non volle studiare ed imparò il mestiere. Impulsivamente aprii le ante poste al centro. All’interno sussistevano due grandi specchi voluti da mia madre, poiché a suo dire non erano soggetti tanto facilmente alla polvere. Mi specchiai. Si mostravano davanti ai miei occhi dei lineamenti nuovi,non notati. Ero incredula, titubante, per la figura riflessa, fosse vera o la mia fantasia s’avvaleva a fare apparire l’irreale. Amavo quello specchio che rifletteva la mia immagine, per il modo di fare, per i miei difetti, per i pregi che non sapevo d’avere. Amavo me stessa per il modo di essere poiché era dono e come tale io esistevo. Intanto il sole mi aveva seguito, infilava, ora, il naso tra le fenditure della finestra per intravedere cosa facevo. I suoi raggi riflessi nello specchio indugiavano stupefatti a quella sembianza. Tentai di serrare la finestra, fu invano il mio agire incautamente l’avevo rotte antecedentemente in uno scatto d’ira. Lo lasciai spiare. Avevo indossato il vestito niveo attillato, dal quale appariva nella parte superiore un ingrossamento che prima non avevo notato. Alzai a stento il vestito, vidi un seno tondeggiante, con due capezzoli neri duri. Posai, trepidante su di lui la mia mano, lo vezzeggiavo delicatamente per paura di non fargli male. Ero affascinata, soggiogata completamente da quel sostanziosa prominenza. Percepivo la lingua spezzarsi ansando, un fuoco sotto pelle correva, un sudore freddo pervadeva in tutto il corpo, un tremore scuoteva sordi richiami di erotismo. Gioii. Guardai estasiata il mio corpo che si accresceva in tutta la sua bellezza. Vita fine, fianchi eguali misura del seno. Dal tronco del corpo si estendevano due gambe lunghe con caviglie fine, me né innamorai. Presi le calze velate, le scarpe col tacco, una gonna nera stretta di mia madre, li indossai. Dal suo cofanetto rubai il rossetto rosso, lo estesi sulle labbra, mi spruzzai un po’ del suo profumo, mi misi i suoi gioielli. Alzai i lunghi capelli castani chiari raccogliendoli con uno spillone nero, mi specchiai non riconoscendomi. Rivolse lo sguardo verso il sole volevo il suo consenso o una lusinga. Non ebbi responso se non un esile calore tra le guance fece qualche passo, volevo ancheggiare come se fossi in passerella. Persi l’equilibrio. Ahimè, non sapevo camminare con i tacchi. Mi parve in quell’istante di sentire una risata strozzata. Mi girai, era il sole, mi canzonava. Lo guardai arrabbiata, altezzosamente girai le spalle e continuai ad ancheggiare, non persi l’equilibrio. Udii un fischio ampliato, non mi voltai, sapevo chi era. Era quel curioso, dispettoso, arrogante amico sole. Sorrisi compiaciuta senza farlo intendere, avevo il mio ammiratore. Davanti agli specchi effusi un sottile, ambito, compiacimento, eppure dentro di me sentivo una vocina intimidita che bussava con lesti colpi. Cercai di convincermi che non esisteva, che fosse sospesa fra sogno e realtà, ma c’era, era proprio là, nel cuore che bussava ripetutamente con tocchi forti e decisi, cercai di ascoltarla. Era la voce spumeggiante di zenzero di quella ragazza, che correva negli agguati di luce sulla riva di ieri, nei miraggi estivi affogati di papaveri in fiore. Quella semplice ragazza in cerca di un giaciglio fresco di rugiada ove posare lo sguardo e indossare i ricordi d’infanzia mentre la brezza del vento le scompigliava i lunghi capelli castani chiari e le farfalle l’annusavano nel loro profumo di mela. Come un pugno di sabbia che non si può calpestare, percepivo un conflitto intrinseco nel mio inconscio. Contemplai sotto un’altra luce quella figura di donna rispecchiante. Intrapresi a manifestare dubbi e insicurezze. Era quello che volevo? D’impulso sciolsi i capelli, tolsi il rossetto dalle labbra, gettai a terra la gonna, feci volare le scarpe col tacco sul letto. Spogliandomi, da quella maschera, mi sentii pulita. Quando i sogni non combaciano, nell’invisibile sorge la realtà : non ero donna. Ingoiai non la sputai questa parola, giocava ancora sulla mia pelle. Lunga e confusa fu la notte, girava segreti del giorno, dietro a quel sapore, mi trovai indolentemente adagiata, priva d’ali da spiegare.
Egheggiano passi stanchi
tra i vicoli della penombra lunare
L’aria pungente inebria narici dell’aspro mosto
segue silenziosa l’ombra compagna muta
di quella notte rapita nel mistero
Il fumo di un comignolo tratteggia
nell’ombroso cielo pensieri
dispersi dalla mente
nell’acceso fuoco da innocenti risate
la brezza sparpaglia nella pungente aria
il bisbigliare di commare
la nenia di una culla
un amore da cantare
Rintocca la campana nella fitta selva
al vagare di un anima senza sepolcro
mentre la nebbia sale
con il suo candore
addormentando quel borgo
tra gemiti e vezzi della vita